italo antico scultore

 
 
DI MARE E D'ACCIAIO – Simona Campus

Il silenzio della pioggia sul mare.
Il suono dell’Africa trasportato dal vento.
Le onde si frangono, ora lievi ora tumultuose. Incontrano moli costruiti dagli uomini o spiagge lunghissime e bianche, abbacinate di sole. Talvolta hanno un ritmo orizzontale, come quelle che a Scheveningen suggerirono a Mondrian l’utopia meravigliosa di un’arte libera che liberasse le persone. Spesso i flutti dilagano, malinconici come i ricordi. Hanno il sapore di quel dolce chiamato madeleine, che rende inesorabile la Ricerca.
Comincia dal mare la storia della vita e dell’arte di Italo Antico.
Nato a Cagliari nel 1934, con la famiglia trascorre l’infanzia in Albania, a Scùtari, al seguito del padre ufficiale dei carabinieri. Dopo i numerosi trasferimenti a Genova, Trieste, Grosseto e il successivo ritorno in Sardegna sul finire degli anni quaranta, si iscrive all’Istituto Nautico. Il suo percorso di studi e di giovinezza è però gravemente minato da una malattia polmonare. Nei lunghissimi mesi trascorsi in sanatorio, a Sondalo in Valtellina, dove è costretto a ricoverarsi ripetutamente, fino al 1956, Antico prende l’abitudine di consegnare la propria solitudine ai disegni - appuntati ad inchiostro, dapprima su fogli sparsi - che raccontano la nostalgia della battigia, la voce della risacca, e di tanto in tanto tratteggiano navi, barche e reti di pescatori. Quei primi schizzi attirano l’attenzione del pittore Attilio Zandarin, originario della provincia di Padova, anch’egli degente. Nasce un’amicizia che significa per Italo la scoperta del valore dell’arte e una determinante esortazione a coltivare quello che si profila già essere un grande talento. L’ingegno ha bisogno di dedizione e fatica. I disegni annotano impressioni ed estrinsecano sentimenti ma sono anche severo apprendistato e continuo esercizio. Costituiscono i momenti di un’appropriazione graduale, tecnica e compositiva, dei codici specifici della figurazione. Ai fogli sparsi si sostituiscono numerosi taccuini rilegati, all’inchiostro si accompagnano differenti strumenti grafici. Sono ascrivibili al 1955 alcuni disegni realizzati con i gessetti, che analizzano il contrapporsi delle masse cromatiche: sono campi di forza costruiti con il colore, presuppongono la comprensione dell’avanguardia storica, dalla sintesi dinamica di Boccioni all’intensità evocativa di Marc. Ma è soprattutto la forzatura drammatica di matrice simbolista ed espressionista ad interessare le immagini realizzate nella seconda metà degli anni cinquanta. La malattia fa scoppiare paure inconfessabili, i disegni si popolano di maschere inquietanti, spettri che affiorano dagli angoli più reconditi della mente e gridano l’angoscia inesorabile. In quelle maschere urlanti il dolore soggettivo s’innesta all’eco diretta di tanta parte della coscienza artistica del XX secolo. L’arte moderna ha destituito la bellezza per conoscere la verità: e la verità si è rivelata scomoda, ha messo a nudo la fragilità della condizione umana; un’ossessiva ricerca dell’identità si è consumata nella tragedia dello straniamento dell’uomo dal mondo. Negli ascendenti di Munch, Ensor e Nolde, Antico riconosce la possibilità di scandire i propri moti interiori.
Superato il momento più difficile, sente insopprimibile il desiderio del mare, nel 1958 s’imbarca allievo ufficiale su una petroliera, viaggia lungo le Americhe per oltre un anno. Le traversate sono ancora piene di pensieri, di morte e d’amore, ma l’odore di catrame e di stoppa sul ponte comincia a mescolarsi al profumo di terre esotiche. Nascono i primi dipinti - eseguiti a olio su tele grezze recuperate a bordo - i soggetti dei quali, Apparizioni (1958) e Caraibi (1959), mettono l'accento su un nuovo e positivo impulso, cagionato dall’incontro con altri luoghi e altri popoli. Dopo una breve sosta a Cagliari, Antico parte di nuovo, alla volta dell’Oriente, approda a Singapore e nel Golfo Persico. Poi ancora l’Australia e la Nuova Zelanda. Infine il Giappone, tanto a lungo sperato. Nutrita del fascino di culture lontane, cresce in un’affinità elettiva la passione per gli ideogrammi, per le scritture calligrafiche, adatte a descrivere i lampi di luce, come già sapeva Van Gogh e andava confermando la pittura segnica di Mathieu. Si apre un periodo d’importante sperimentazione e una profonda meditazione legata alla filosofia orientale. I ritmi sincopati e tesi, i segni nervosi lasciano progressivamente il posto a un brulicare di tratti rapidi e filiformi, intrisi di una nuova volontà di vita e di conoscenza. Da tanti disegni scompare ogni intenzione mimetica, solo trame di linee che s’intrecciano a macchie d’inchiostro. Di contro a tutta la tradizione dell’horror vacui e nel rispetto del concetto di sunija, ampie porzioni del foglio sono spesso lasciate vuote, richiamando il fascino dell'assenza nella camera da tè e in molta architettura giapponese. Anche nei dipinti l’ascendente della scrittura ideografica si risolve nell’invenzione di linee, che ora si atteggiano in forme vagamente antropomorfe: vi si possono riconoscere i sinuosi corpi di Danzatrici (1960) o i protagonisti di un sinistro incedere, scarnificati dal rosso infuocato del Tramonto (1960). Oppure ancora i dannati al tragico corteo della Fame (1961), dipinto dopo il ritorno in Italia, ad Arco di Trento, dove Antico soggiorna qualche mese per stare vicino all’amico Zandarin. Certo c’è il persistere perentorio dell’inclinazione all’espressionismo, un espressionismo in bilico tra figurazione e astrazione. Riaffiorano Incubi (1960) di presenze allucinate in metamorfosi, rese concitate da un cromatismo violento; e le Figure Indiane (1960) sono dentro ad un tumulto di arabeschi neri. Ma c’è anche, in divenire, un’energia diversa, meno implicata di esistenzialismo, una spontanea corrente di comunicazione con la natura. La componente gestuale non è mai istintualità incontrollata ma anelito ad una contemporaneità assoluta tra pensiero e azione, e ad un’autentica espressione spirituale. In ogni caso, le sagome sottili, che sono la conseguenza di un’unione profondamente interiorizzata tra Oriente e Occidente, costituiscono la formula caratterizzante di una originale maniera espressiva.

Prima di far rotta per le Americhe, Italo Antico, conseguito nel 1956 il diploma all’Istituto Nautico di Cagliari, vive per oltre un anno a Napoli, dove frequenta l’Istituto Universitario Navale. Nel capoluogo partenopeo, Edilio Petrocelli, studente dell’Accademia di Belle Arti, gli insegna i rudimenti della lavorazione dei metalli, introducendolo alle tecniche di sbalzo e cesellatura. Nasce da qui il destino di un artista non soltanto straordinariamente generoso nel destinare ad una pluralità di prospettive l’intatta coerenza del suo meditare, ma anche capace d’imprimere la medesima energia inventiva e sapienza fattuale alla scala monumentale delle sculture più imponenti e alla gioielleria, che per questo è redenta dai suoi aspetti effimeri, legati alla moda e al mutare del gusto. Le più antiche prove plastiche di Antico, a partire dalla fine degli anni cinquanta, sono complementari alla grafica e alla pittura nelle iconografie e negli intenti stilistici: creature, che per primo Corrado Maltese definisce organiche, sono ritagliate nel ferro, nell’acciaio o nel rame. Dal metallo nascono, crescono e si librano nell’aria, affrancate dal vincolo della materia che le ha generate. Con procedimento inverso, talvolta, come nella piccola Figura (1963) in argento battuto, la superficie accoglie l’immagine, leggiadra e fluida, in un dominante effetto di chiaroscuro.
Pur nella scelta di ricorrere ad una stilizzata rappresentazione e nell’estraneità ad apologie materiche, i rilievi dei primi anni sessanta sorprendono per alcuni punti di tangenza con le esperienze di certa scultura informale italiana. Nel bassorilievo in rame sbalzato Esodo (1961-62), realizzato per il Credito Industriale Sardo, il timore che un’industrializzazione irresponsabile possa compromettere gli equilibri di una storia millenaria è tradotto in un fitto idioma segnico, non dimentico dei calligrammi e affine a quella sorta di alfabeto cuneiforme che contraddistingue i bassorilievi di Scanavino per il genio civile di Imperia. Nella Sardegna (1961-62) scolpita per l’Ente del Turismo della Provincia di Cagliari e soprattutto nell’epopea mitica de La costruzione del nuraghe (1964), l’intelligenza nel decodificare con tempestività e cognizione critica le motivazioni della contemporaneità convive con il bisogno di conoscere le proprie radici culturali e rileggere la tradizione. Antico coltiva il proprio interesse per l’antropologia e l’archeologia, anche grazie all’amicizia con lo studioso Enrico Atzeni. Le forme compendiate e la ruvidità delle superfici nell’altorilievo in lamiera Janas (1965), unico particolare di un progetto rimasto incompiuto, allude a effigi arcaiche e solenni. Dall’archeologia alla storia dell’arte. Il Crocefisso (1963) in rame della chiesa di San Domenico a Cagliari evoca nel pathos intenso il Cristo di Nicodemo, una tra le pagine più alte della scultura in Sardegna.
Gli anni centrali del decennio sono affollati di creazioni, per importanti commissioni pubbliche e private: la grande composizione Danza (1964), in lamiera di ferro, del cinema Ariston a Nuoro, purtroppo andata dispersa; l’altorilievo All’arma (1965), anch’esso in lamiera di ferro, del circolo ufficiali dei carabinieri di Iglesias; i bassorilievi in rame con le Stazioni della Via Crucis (1965-66) per la chiesa di Santa Maria Ausiliatrice a Guspini e quelli con le otto vedute de I porti della Sardegna (1966) per il genio civile a Cagliari; l’insolito bassorilievo in ceramica Al sole (1966-67), realizzato su uno dei muri esterni della scuola elementare Bingia Matta a Cagliari; il portale (1966-67) in rame per la Chiesa dell’Annunziata a Castiadas. Opere tutte riferibili ad una indagine tesa a vagliare il potenziale della forma sulle prerogative luministiche dei metalli.
Ma altre indagini si preannunciano, nuovi avvii e nuove strade da percorrere. Dismessi momentaneamente i panni del faber, Antico crea una serie di sculture in polistirolo, optando, ed è la prima volta, per il tutto tondo. In Busto (1966), Feticcio Tu (1966) e Feticcio (1967), l’antiretorica del materiale diventa funzionale al risalto del carattere propriamente plastico dell’oggetto scultoreo, che occupa con certezza le tre dimensioni. Sono opere quasi surrealiste, non per un automatismo d’esecuzione che ad Antico è del tutto estraneo ma per il motivo totemico e apotropaico, vicino alla scultura di Ernst, e per il tributo a quel "primitivismo" che tanta parte ha avuto nelle vicende artistiche occidentali del Novecento. E anche in Riporti (1966), che pure è un rilievo costruito nel piano, i solchi che fendono il materiale preludono ad imminenti, nuove conquiste spaziali.

Il 1962 segna l’avvio del fittissimo iter espositivo di Italo Antico, con la presentazione dei disegni alla mostra collettiva della galleria d’arte sassarese "Il Cancello" e dei dipinti alla IV Mostra Regionale a Cagliari. Al principio degli anni sessanta risalgono, altresì, i primi gioielli, che da questo momento e per i decenni a venire sono oggetto di un impegno creativo analogo a quello profuso nella scultura. E finanche, talvolta, i gioielli anticipano soluzioni che poi vengono sviluppate nelle opere di maggiori dimensioni. Esposti anch’essi a partire dal 1962 - alla Fiera Internazionale della Sardegna a Cagliari, alla Mostra dell’Artigianato Sardo a Sassari e alle Mostre Internazionali dell’Artigianato di Firenze e di Francoforte - dapprima i monili sono ornati di turchesi non levigati; ispirati ai motivi, stilizzati, dei costumi sardi; oppure risolti in cerchi e quadrati di concisione geometrica. Comunque sempre distanti da fasti decorativi e improntati ad una semplicità estrema. Poi le collane, le spille, gli anelli e gli orecchini sono anch’essi coinvolti in una rivoluzione sotto il segno della linea. Anzi, proprio alla flessione della linea metallica di un anello, Antico fa risalire l’intuizione del segno che distingue le sue sculture più rappresentative. Ampiamente storicizzati in studi specifici - si segnala, in particolare, il catalogo monografico a cura di Maria Grazia Schinetti (2004) – ai quali si rimanda per una più puntuale documentazione, i gioielli costituiscono un magistrale esempio del come Antico lavori su molteplici registri, esaltando le proprietà e le finalità connaturate agli oggetti d’arte applicata. Oggetti che sono, oltre ai gioielli, i tappeti, disegnati dal 1962 per la cooperativa di tessitrici di Zeddiani, nella provincia di Oristano; gli arazzi, progettati nel 1963 per il laboratorio Piras di Mogoro; le maschere in legno affidate, nello stesso anno, all’intaglio di Lino Poma a Cagliari; le piastrelle, messe in produzione, nel 1970, dalla C.I.E.R. di Cagliari; i raffinatissimi pezzi di design, mirabili per essenzialità ed eleganza, ideati soprattutto per il negozio di arredamenti Genca.
Un filo rosso si snoda attraverso questa pluralità di realizzazioni, rendendole parte integrante di un’unica totalità d’ispirazione: il rigore di un metodo ineccepibile. Ogni progetto è, infatti, il portato di un’idea sempre verificata in progressione da un sistema di disegni. Sul medesimo rigore metodologico, teso a demistificare la coincidenza di arte e pura intuizione, Antico fonda il suo impegno didattico, dapprima docente al Liceo Artistico di Cagliari e al Liceo Artistico di Brera, poi preside del Liceo Artistico "Umberto Boccioni" di Milano, alla nascita del quale contribuisce in modo determinante. Nel 1970 Antico è tra i promotori della "Prima Mostra del Liceo Artistico" di Cagliari, un’iniziativa tutta fondata sulla necessità di divulgare un’esperienza didattica tesa a «liberare i ragazzi dalle genericità coattive di una «cultura» sorpassata. Il che vuol dire», spiega Marisa Volpi Orlandini, «dettagliare i procedimenti tecnici, familiarizzarli con le leggi dell’ottica, con i valori simbolico – conoscitivi delle forme; far loro capire la specificità dei materiali, l’importanza della scala realizzativa; introdurli ad alcuni aspetti assodati e ad altri controversi della sintassi compositiva; distruggere in essi il mito dell’artista creatore, derivato dalla feticizzazione romantica dell’umanesimo». Nel 1977 l’artista, invitato alla mostra "Didattica 2" di Modigliana, vicino a Forlì, ribadisce i principi di questo innovativo quanto opportuno approccio all’insegnamento: «Non ho inteso trasmettere una mia personale visione, ma una sintassi, una tecnica, non in termini assiomatici ma in termini metodici. Un metodo dunque guidato dalla razionalità e dalla tecnica in sostituzione dell’aspirazione carismatica; si perviene così ad un fare analitico e ad una assimilazione del reale attraverso un controllo dell’esperienza».

Il nuovo corso della ricerca di Italo Antico ha un preciso e consapevole momento aurorale nella scultura in bronzo All’eroe (1965) per la tomba Falzoni del cimitero di Fonni: animata interrelazione di metallo inquieto e vuoto eloquente, sa efficacemente alludere, nell’assenza di riferimenti naturalistici, alla fine tragica di un giovane uomo, l’energia del quale non è stata, però, annichilita. Semplicemente, sembra donarsi ad altre atmosfere. Tra il 1966 e il 1967, le sculture indicate semplicemente con i titoli Struttura o Acciaio sono fondate sulla costruzione modulare: elementi industrialmente prefabbricati si compongono in morfologie geometriche irregolari, instaurando rapporti plastici reciproci e rispetto all’unità dell’insieme. Assemblaggio di coefficienti preesistenti, ricavati dall’universo del quotidiano banale e aggregati gli uni agli altri, le opere sono riferibili a quella direttrice della storia dell’arte del XX secolo, che muovendo dai papier collé cubisti passa attraverso il ready made duchampiano per arrivare all’accezione tautologica dell’oggetto artistico asserita dalla minimal art.
Durante gli anni sessanta sono, infatti, andate specificandosi nel panorama artistico internazionale esigenze di riscatto della vita e della realtà, in contrapposizione al titanismo tragico dell’action painting e dell’informale: accanto all’eclatante dilagare della seduzione consumistica e dell’antieroismo pop, negli Stati Uniti e in Europa si determinano le circostanze di nuovi orientamenti culturali, nel nome di un’austerità calvinista di idee e processi estetici. Con le posizioni dell’arte minimalista, riduzionista e analitica i moduli di Antico condividono la contrazione fino alle forme basilari del linguaggio e l’interesse per le componenti teoriche del fare artistico di contro alle componenti meramente emozionali. La fisicità delle opere è la risultante non di un plasmare demiurgico, ricco di implicazioni paradigmatiche, ma una strategia di appropriazione di frammenti direttamente prelevati dalla realtà. Che poi è il proponimento da parte degli artisti di tornare ad intervenire nella società.
Se i moduli creano lo spazio su presupposti di sequenze seriali, aliene da rapporti gerarchici, purtuttavia non ricusano l’intervento dello scultore, che direttamente e manualmente prende parte alla genesi costruttiva, senza delegarla a procedimenti anch’essi industriali che garantiscano l’impersonalità totale. Così come, se da un lato le composizioni sembrano essere aprioristicamente programmate dalle qualità specifiche delle parti costitutive, dall’altro rimangono aperte a possibilità percettive imponderabili. Le sculture si rendono disponibili ad essere costantemente modificate dalla luce che le attraversa, i trafori alleggeriscono la compattezza dei volumi, resi peraltro dinamici dallo sfalsamento dei piani e dall’intersecarsi delle superfici. Il dato geometrico istituisce, inaspettatamente, fenomenologie del mutamento e del divenire.
Può accadere così che ritmi propriamente costruttivisti possano condurre senza soluzione di continuità ai limiti di un naturalismo reinventato: è il caso di Horsey, opera modulare in acciaio realizzata tra il 1967 e il 1968 per la capitaneria di Porto Torres.
Occorre ricordare che in questo periodo Antico lavora, pur con l’atteggiamento appartato e riflessivo che lo contraddistingue, in analogia di intenti con quegli artisti e quei movimenti, che a Cagliari operano per il rinnovamento dell’arte in Sardegna. Nel 1967, per esempio, firma insieme con Pantoli la scenografia – ambito nel quale si cimenta più volte e sempre con risultati originali – per lo spettacolo "Il Drago" dello scrittore Evgheni Schwarz. Nel 1968 espone con Brundu, Caruso, Casula, Della Maria, Leinardi, Mazzarelli, Mele, Pantoli e Ugo al Centro di Cultura Democratica. E poco prima del suo definitivo trasferimento a Milano, è partecipe di fondamentali momenti di confronto con le istanze della cultura nazionale ed europea, quali la riapertura della Galleria Comunale d’Arte di Cagliari nel 1975 e, sempre a Cagliari, nel 1977, la mostra "Punto e Linea sulla Superficie" nella cripta di San Domenico.

L’acciaio inossidabile divenne materia disposta ad essere forgiata dall’immaginazione quando l’arte scelse di emancipare dalla banalità gli oggetti dell’industria. Per costruire l’unità di genio e tecnica, Gropius fondò una scuola democratica e le diede il nome di Bauhaus. Moholy Nagy vi dirigeva l’officina dei metalli, con l’acciaio e l’alluminio creava magnifici effetti di delicatezza ed equilibrio. E quando in Russia le icone della rivoluzione viaggiavano sui treni e conquistavano le strade, anche a Gabo e Pevzner era capitato di usare l’acciaio.
Nella definizione di un nuovo canone estetico, tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta, Italo Antico sceglie l’acciaio quale materia esclusiva del suo fare artistico. Materia storica dell’era moderna ma inossidabile, immutabile e potenzialmente eterna. Acciaio in tubi, appena flessibile. Superato il procedimento di aggregazione modulare, l’atto creativo diventa fatica, lotta per il dominio della forma.
Antico ripensa ad una costellazione di riferimenti: medita la suprema unità formale di Brancusi, il divenire organico di Moore e la sensibilità vibrante ad ogni più lieve moto dell’aria nei mobiles di Calder. Il fitomorfismo allusivo e levigato della Hepworth. La continuità totale e cinetica dello spazialismo di Fontana. La leggerezza dei segni di Melotti, poetici distillati di musica e matematica. Da un substrato di coordinate amplissime Antico dà immagine al proprio pensiero, elabora straordinari ritmi lineari. La linea, si sa, nasce dal movimento di un punto. Le linee di Antico nascono da quel punto dove s’intersecano la sublimazione kandinskiana e la potenza generatrice di Malevic. Ovvero fissano gli istanti e ciò che essi contengono, trasfigurandoli in una tensione perpetua della natura verso l’universale e l’assoluto. Per questo «viene fatto di chiedersi, ogni volta di fronte alle opere di Antico», commenta Paolo Fossati, «se si offrano come il prosciugamento pressoché definito di una realtà, fisica ma anche plastica, che si è contratta all’estremo e di cui resti come segnale di continuità, nel tempo prima ancora che nello spazio, questo elemento ormai fossile, questa vertebra di materia industriale. Ma viene fatto, anche, e in contemporanea, di domandarsi se non sia altrettanto vera l’impressione opposta, se questo reperto, cioè non sia una sorta di germinazione primaria, elementare, l‘affiorare di un sistema di presenza che oggi si mostra in scoperta semplicità e via via si compone in una dimensione sempre più ricca, e complessa, occupando sempre più spazio».
Possono flettersi, le linee. Curvarsi, inclinarsi, espandersi. Allora creano campi di forza in opposizione. Imperniate sul contraddittorio di direttrici orizzontali e verticali sono le sculture della prima metà degli anni settanta, a partire da Alla terra (1969), realizzata per l’amministrazione provinciale di Piacenza e Inox 70, acquisita dalla Galleria Comunale d’Arte di Cagliari in seguito al concorso, nel quale Antico ottiene il primo premio, per i festeggiamenti del VI centenario della Madonna di Bonaria. In Contrazione (1970) i cavi d’acciaio si accostano gli uni agli altri nel modo in cui farebbero le dita di una mano, in Sequenze avvolgenti (1970) si piegano più volte, quasi un corpo umano che poggi il proprio peso sulle ginocchia. Le Intersezioni (1972) richiamano ali di farfalla, leggere e disposte a sfidare l’aria. In Espansione quadra (1972–73) la dialettica delle differenti tensioni si compone nell’equilibrio di una forma compiuta ma non chiusa. Variazioni in crescendo (1971) e Verticalità contratta in crescendo (1972) sono invece costruite intorno ad un impulso più marcato alla verticalità, ad un istinto meno latente alla trascendenza, che si fa a poco a poco più forte.
A presentare la prima mostra personale di Antico, nel 1972, alla Galleria Cadario di Milano, è Gillo Dorfles, che da questo esordio e fino a oggi segue costantemente e decodifica l’avvicendarsi delle problematiche e delle soluzioni, che sculture di tal fatta implicano. Nel 1973, in occasione di un’altra personale alla galleria genovese "Arte Verso", il già citato Corrado Maltese racconta di «aste argentee contratte e scattanti, a fasci, nello spazio, fluide e rigide al tempo stesso». Intanto la scultura Opposizioni intermedie (1973-74) e la mostra, sempre nel 1973, alla Galleria Duchamp di Cagliari, presentata da Placido Cherchi, vanno rivelando come Antico tenda ad enfatizzare in maniera sempre più esplicita la vocazione delle proprie creazioni a non limitarsi a vivere nello spazio ma a costruirlo. Uno spazio, che, chiarisce Enrico Crispolti - introducendo la mostra della Galleria Blu a Milano nel 1975 e riferendosi a opere quali Espansioni adiacenti (1975) e Flessione (1975) - non è più quello ideale della scultura tradizionale; non è più quello esclusivamente mentale dell’arte concettuale; non è più nemmeno lo spazio non eludibile della scultura informale. È «la dimensione spaziale empirica in tutta la sua disponibilità». I tubi d’acciaio diventano segni ambientali, che lo spazio riescono a misurare con esattezza ed insieme ad impregnare di tutto il fascino del relativo e della mutevolezza. Dunque di luce. Oltre alle stanze delle gallerie – citiamo almeno la galleria "Mantra" di Torino, nel 1974, la galleria "Il Naviglio" a Milano e la "Galleria G72" a Bergamo nel 1976 – i segni ambientali si accingono ad abitare luoghi saturi di storia. Del 1978 è l’intervento nella chiesa sconsacrata di San Michele a Fidenza, relativamente al quale Antico ha scritto preziose pagine esegetiche: «Preferire questa chiesa sconsacrata e in uno stato di totale abbandono, al giardino o al luogo di transito, era per me una esperienza singolare. Come puntualizzai la soluzione d’intervento, mi entusiasmò sempre l’idea di inserirmi in quello spazio, in quella misura monumentale così razionale e calibrata con un mio segno d’acciaio scarno, dimensionalmente vuoto che non la turbasse o la provocasse… Progettai una linea di trenta metri inizialmente inerte che adagiata sul pavimento della navata centrale sfiorasse lo spazio sovrastante, per poi proiettarsi in esso con vibrazioni e scarti, riappoggiarsi brevemente e procedere in un ambiente attiguo semicircolare dove si eleva leggermente addossandosi agli angoli e alla parete ricurva, per immettersi obliquamente nello spazio attraversandolo sino all’esterno». Al 1981, preceduto da due Ipotesi (1980), risale l’intervento nel museo di Castelvecchio a Verona. Dentro alla struttura architettonica di origine trecentesca, sorprendentemente restaurata da Scarpa, il segno d’acciaio amplia le coordinate delle antiche mura scaligere, proiettandole in un dialogo serrato di storia e di cultura. Ne scaturisce il miracolo di una perfetta coesistenza di passato e presente, arricchita dalla certezza che lo spazio possa continuamente reinventare le proprie capacità narrative. La stessa certezza sovrintende anche al Segno (1981), che dalla galleria "Il Naviglio" si staglia sul cielo di Milano, maestoso obelisco moderno. Sia nella misura ambientale – tra gli interventi degli anni successivi riferiamo almeno quello della galleria "Mercato del Sale" a Milano nel 1983, e quello di Gubbio nel 1986 – che nella dimensione oggettuale della scultura l’opera di Antico è oramai figura di un’ascesi, distillata da ogni movimento accidentale e superfluo; apparizione di una realtà ineffabile, che precede quella fenomenica; pieno dominio di ogni contingenza, in sembianze di rette, curve e spirali che appartengono al regno della luce purissima. Per l’infinito (1980) è un solitario, commovente brivido di sole, appena mosso da impercettibili vibrazioni. Antagonismo relativo (1985), Verticalità con nodo (1985), Principio di continuità (1985), afflato lirico di concetti spaziali, smentiscono irrevocabilmente l’illusione che fu di Lessing e del suo Laocoonte intorno alla differenza tra l’arte dello spazio e l’arte del tempo. Athikte (1996), elogio del vuoto. La forma dell’impossibile (1997), ossimoro, riconcilia la scissione platonica di mondo e iperuranio. Concentrazione suprema. Memorie di un quadrato bianco dipinto su un fondo bianco.
Lungo il corso degli ultimi decenni Antico concede alla propria arte un’unica, bianca, possibile alternativa materica: la carta. Le sculture di carta esposte a Fabriano nel 1985 – Espansione (1977), Successioni (1979), Estasi (1984-85), Porzione barocca (1985) – sono «volumi accampati nello spazio», riferisce Rossana Bossaglia nel catalogo della mostra, «per occuparlo tridimensionalmente, incroci di piani, limpidi ma di sostanziosa corporeità». Le più recenti Tracce (2003-04) custodiscono, invece, fregi senza peso su fogli inviolati, che vivono di quiete e di nitidezza.
Ma l’acciaio è sempre è lì. E anche il mare. In verità, hanno cominciato ad abbarbicarsi l’uno all’altro, come l’anima al corpo.
I Flussi, i Riflussi, le Onde.
Le pietre. L’acqua. La vita.

 
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